Pagina 1 di 4 I registri della voce e il passaggio di Franco Fussi La descrizione più comune del termine di registro è quella che identifica con tale termine un ambito di frequenze, cioè un gruppo contiguo di note, che possiedono uno stesso timbro vocale e in cui tutti i toni vengono percepiti come prodotti in modo simile. La definizione risale al Garcia, che scriveva nel suo trattato sul canto: “Colla parola registro noi intendiamo una serie di suoni consecutivi e omogenei che vanno dal grave all’acuto, prodotti dallo sviluppo di uno stesso principio meccanico, e la cui natura differenzia essenzialmente da un’altra serie di suoni ugualmente consecutivi ed omogenei prodotti da un altro principio meccanico. Tutti i suoni appartenenti allo stesso registro sono per conseguenza della stessa natura, qualunque sieno d’altronde le modificazioni di colore e di forza cui si assoggettano”.
E’ stato stabilito dalla moderna fisica acustica e dalla foniatria che i registri vocali sono in realtà eventi di tipo esclusivamente laringeo consistenti in una serie o ambito di frequenze consecutive prodotte con qualità fonatorie identiche, identificabili attraverso rilievi percettivi, acustici, fisiologici ed aerodinamici. Nella didattica della voce cantata, parimenti, quando si parla di registro si intende una serie di suoni contigui di uguale timbro, prodotta da una stesso meccanismo laringeo ed in rapporto equilibrato con particolari adattamenti delle cavità di risonanza. Questi adattamenti risonanziali hanno determinato il fiorire di terminologie varie e discordanti che fanno dei registri un argomento alquanto confusivo, sia per fattori di ordine storico-musicale, legati allo sviluppo della vocalità cantata, che per l’estensione del termine a qualità timbriche che dipendono invece esclusivamente da atteggiamenti assunti dalle cavità di risonanza e che sono assimilate sotto il termine di registri di secondo ordine, come ad esempio gli aggettivi di “aperto” e “coperto” che si usano attribuire a precise qualità d’emissione di un suono. Nel parlato, utilizzando cioè note gravi dell'estensione vocale fisiologica, si sperimenta notoriamente la consonanza vibratoria della gabbia toracica, quella che è gergalmente e impropriamente- detta “risonanza di petto”, la quale comprende, almeno per l'uomo, l’ambito tonale della voce di conversazione. L'intensità di tale sensazione vibratoria diminuisce salendo la gamma tonale fino ad un punto in cui, nel comune parlante o nel cantante ai primi studi, l'ascesa tonale si accompagna ad un radicale mutamento di qualità dei suoni, con timbro più chiaro e lieve innalzamento della laringe. Questo evento corrisponde a ciò che alcuni maestri chiamano il primo passaggio. La qualità vocale di questo secondo gruppo di suoni, che può corrispondere nel comune parlante al range della voce di chiamata o gridata, interessa un intervallo di quarta o di quinta, oltre al quale la fonazione viene realizzata con sforzo muscolare notevole, con possibilità di rottura del suono, un fenomeno analogo al cantante che prende una “stecca” su toni della seconda ottava della sua estensione. Questo secondo limite è ciò che viene definito secondo passaggio. Rappresentando quest'ultimo il mutamento fisiologico più radicale dell'impostazione nel canto, almeno per le voci maschili e sopranili, il termine "passaggio" è solitamente usato ad indicare il secondo passaggio. Quello che fa in realtà il cantante lirico è cercare di equilibrare le necessità di allungamento delle corde vocali nel salire ai toni acuti con il controllo dell’azione del muscolo vocale, il quale permette un buon contatto glottico e mantiene in vibrazione tutto il corpo cordale, e con il controllo della posizione laringea, che tenderebbe a salire durante l’ascesa agli acuti. Ciò permette, da un punto di vista acustico, il mantenimento della concentrazione dell’energia acustica nella zona di armoniche definita come “formante del cantante”, situata intorno ai 2500-3000 Hz, che dona all’emissione cantata quella caratteristica timbrica che riconosciamo facilmente nel canto lirico impostato, in altri contesti definita come “voce piena” o anche “registro pieno”. Nel caso del proseguimento in acuto senza questi adattamenti si sconfina in una vocalità tesa e gridata, tipica degli urlatori, e quindi più (ma non soloŠ) caratteristica della vocalità leggera (nel senso di non classica, non lirica), in cui sono presenti paradossalmente anche più armoniche rispetto al canto lirico, ma con intensità ridotte e senza rinforzo nella zona definita come “formante del cantante”: l’impressione è quella del canto forzato, dove più che l’intensità della voce colpisce il senso di sforzo e una qualità vocale pressata e tesa. In questo senso si dice che il cantante non “passa” di registro, cioè non fa quelle modifiche necessarie al suo apparato per proseguire sugli acuti in maniera “lirica”, cioè sviluppando la citata ”formante”. Il più evidente “cambio” di registro consiste ovviamente nel passaggio, salendo agli acuti, all’emissione in falsetto, ma questa modalità non caratterizza il canto classico, se non occasionalmente a scopo caricaturale o nei pianissimi di alcuni tenori leggeri, ma alcuni generi vocali moderni o folclorici come il jazz, il pop, lo jodel. La transizione tra suono “pieno” e falsetto è comunque occasionalmente, anche se non infrequentemente, utilizzata nel canto lirico, ad esempio a scopo caricaturale (categorie vocali maschili che simulano la corda femminile: un esempio, don Bartolo a Rosina: “per disegnare un fiore sul tamburo”) o in smorzature dell’emissione verso i “pianissimo” su toni generalmente acuti da parte di tenori, non solo leggeri o lirico-leggeri. Non stupisce infatti ascoltare questa capacità di transizione insensibile da un suono pieno al falsetto in Alfredo Kraus nei “Pescatori di perle”, ma lascia piacevolmente sorpresi in un tenore lirico-pieno o spinto come Franco Bonisolli nell’aria “Ogni pena più spetata” da “Lo frate Œnnamorato” di Pergolesi. Nella didattica del canto lirico ritroviamo concezioni pedagogiche che vanno dalla negazione dell’esistenza dei registri, proclamando l’uniformità vocale dell’estensione cantata (che è in effetti il fine dell’impostazione) a teorie di due registri (modale e di falsetto, o pesante e leggero), che puntano l’attenzione sulle differenze di composizione spettrale legate al tempo di contatto cordale, cioè sui veri registri primari, fino alla frammentazione in sei o sette registri lungo l’estensione vocale (dal registro detto “vocal fry”, usato per le note più gravi dell’estensione parlata, ai registri di flauto e di fischio, sfruttati da alcune voci di coloratura nei sovracuti).
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