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. La respirazione costodiaframmatica nel canto di Franco Fussi Nella sua “Guida teorico-pratica elementare per lo studio del canto” il Lamperti riferiva: “Il celebre cantante Pacchiarotti scriveva nelle sue memorie che chi sa ben respirare e sillabare, saprà ben cantare e fu quella una delle più grandi verità che lo studio e l’esperienza dell’arte abbiano suggerito ai provetti cultori del canto”. E il medico sir Morell Mackenzie, nel suo “Hygiene of the vocal folds” datato 1887: “Un perfetto governo della respirazione è condizione fondamentale del bel canto; dacché, per quanto la voce possa essere bella in se stessa, non potrà mai essere adoperata artisticamente, se il metodo della respirazione è scorretto”. A volte giungono in ambulatorio giovani allievi di canto che mi chiedono: “Ho avuto due maestri di canto e per quanto riguarda la respirazione sono alquanto in imbarazzo perché il primo mi dice che quando canto devo spingere la pancia in basso e in fuori e il secondo in dentro e in alto. Cosa devo fare?” In teatro, se osserviamo respirare i cantanti, possiamo effettivamente riscontrare alcune visibili differenze: qualcuno alza purtroppo la parte alta del torace e le spalle, altri dilatano molto le costole lateralmente, in altri si nota un avanzamento della parete addominale seguita da un rapido lieve rientro prima dell’attacco del suono, in altri ancora la respirazione sembra inesistente. Mi diceva Patricia Brown, docente al Conservatorio Rossini di Pesaro: “Kraus sembra non respirare in quanto è in grado di esaltare moltissimo la componente respiratoria costale posteriore e dorsale”.
Rispondo sempre al giovane cantante che la corretta respirazione nel canto, come anche l’uso della voce, è il risultato di un equilibrio fisiologico dell’azione di muscolature antagoniste. Come tutto l’equilibrio in natura è il gioco degli opposti, anche la gestione della respirazione nel canto si basa sul rapporto tra le esigenze di controllo della pressione dell’aria che attraversa (e mette in vibrazione) le corde vocali, che va calibrata in modo da “economizzare” il fiato in base alle necessità della frase musicale, e le esigenze del mantenimento della colonna d’aria sufficiente a tali necessità. In altre parole è il rapporto tra quelle che nella didattica si definirebbero le componenti di “appoggio” del fiato e quelle di “sostegno”. L’appoggio è quella condizione che permette il controllo del diaframma nel suo mantenimento verso il basso e nel suo “allargamento” tramite l’azione di muscoli intercostali esterni che mantengono ampio il suo perimetro (come la pelle di un tamburo ben tirata), quindi ne controllano la spontanea tendenza a risalire, facendo sì che non sia intempestiva ma legata alle esigenze dinamiche dell’emissione (piani, forti, acuti, gravi, ecc); è la componente esaltata nei dettami dello “spingi in basso e in fuori” o del “sedersi sul fiato”. Ma come per definizione se io m’appoggio su qualcosa c’è qualcosa che mi sostiene, e più io mi rendo conto di essere sostenuto più sono comodo nello stare appoggiato, già dall’inizio del canto, oltre alle prevalenti componenti di appoggio, dovrà essere presente -fin dall’attacco del suono- un grado minimo di sostegno, che permetta, per così dire, di potenziare le sensazioni di comodità dell’appoggio stesso. In questo senso Manuel Garcia indicava di far rientrare la “fontanella gastrica”, cioè la zona addominale corrispondente allo stomaco: è la componente dello spingere in dentro e in alto. Alcuni trattati ottocenteschi, per descrivere metaforicamente il processo, parlavano di un sacco di sabbia che poggia su una colonna di marmo e deborda ai lati: è sorretto e si dilata comodamente verso l’esterno. Un’altra immagine è quella del coperchio poggiato sui bordi della pentola e sostenuto dalla pressione del vapore. Se però l’equilibrio tra i due fattori viene sbilanciato da un eccessivo e costante appoggio durante tutta la frase musicale, e la respirazione è focalizzata unicamente nel dettame “in basso e in fuori”, ci ritroviamo allievi che dopo un po’ che cantano accusano una sorta d’oppressione al torace, come se venisse loro un infarto, come loro stessi a volte riferiscono. Tale sensazione è legata al fatto che, durante il corso dell’emissione di una frase musicale il consumo di aria indurrebbe gradualmente, via via che l’emissione procede, un’azione controllata di risalita del diaframma per garantire una pressione sotto le corde vocali adeguata all’intensità del suono desiderata. Assumendo invece solo la tecnica di appoggio essi costringono il diaframma a stare basso e non seguire il fiato nella sua fuoriuscita, finendo con il mobilizzare e collassare sterno e torace e ruotare le spalle in avanti (viene da alcuni definita “postura del gorilla”). Le più comuni conseguenze sull’emissione sono riscontrabili in quelle vocalità che definiamo pesanti, e sono infatti più spesso di categoria lirico-spinta o drammatica, che finiscono con l’affondare insieme al diaframma anche il laringe (qualcuno le chiama appunto tecniche di affondo, in senso negativo), dando alla voce un carattere tonitruante, una intonazione spesso calante, gli attacchi spesso una terza sotto o con portamento e, soprattutto, un vibrato ampio che sfiora il “ballamento” di voce. Al contrario chi esagera il sostegno e spinge solo dentro e in alto fa risalire subito il diaframma, e per ottenere la pressione sufficiente è poi costretto a impegnare la muscolatura laringea estrinseca cioè “stringe di gola” (e la laringe si alza): questi allievi riferiscono di aver l’impressione di “impiccarsi con la gola”, di sentirsi stretti ed ingolfati, il vibrato è a volte stretto e caprino, l’intonazione crescente. Cantar “sul” fiato non vuol dire altro che cercare l’equilibrio delle due componenti ed evitare gli sbilanciamenti descritti. Ci ritorna così in mente il vecchio aforisma: soltanto sa cantare chi ben respira. Per giungere al descritto equilibrio le sensazioni interne che il cantante riceve possono essere diverse. Alcuni hanno maggiormente la sensazione della componente d’appoggio, altri quella del sostegno (e a volte alcune differenze di percezione possono essere legate al tipo di categoria vocale e al repertorio); il fatto è che spesso finisce per essere spiegata (e creduta presente) dal maestro solo quella “prevalente” e ingenerato l’errore di un modello unidirezionale. Così il povero allievo si ritrova davanti a una miriade di indicazioni di “ginnastica” respiratoria spesso fantasiose e tra loro contraddittorie: dal maestro che chiede di spingere “come per andar di corpo” (perché si stabilizza meglio il diaframma in basso!), “trattenere una banconota da centomila lire tra le chiappe” (perché la contrazione dei glutei favorisce l’appoggio del diaframma!), “espandere il dorso” (perché i muscoli dorsali son più larghi e espandono meglio la gabbia!), tirare la “pancia in dentro” (perché il torace sta più largo e il diaframma più sostenuto!), o ancora allenare gli addominali con pesi, magari cantandoci su per irrobustirli (tecniche germaniche dette Stauprinzip), vocalizzare sostenendo pesi da palestra con le mani o usare fasce elastiche addominali per “irrobustire” la muscolatura. Si arriva poi agli aneddoti: la signora Caballè si siederà davvero sulla pancia dei suoi allievi per migliorarne la respirazione?
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